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Prosegue la tendenza verso lo sviluppo di cibo cellulare. Ma la domanda esiste o è "spintanea"?

Chi ci legge sa che seguiamo i settori delle alternative proteins e dei cibi cellulari da quando abbiamo iniziato a distribuire questa newsletter. Ѐ una naturale conseguenza del nostro impegno come creatori di contenuti per alcuni dei migliori eventi italiani sulle nuove tecnologie di coltivazione ed allevamento. Il nostro interesse è critico, sia sulle diverse tecnologie che sulle finalità di questo fenomeno che è guidato dagli investimenti delle grandi aziende alimentari e dal venture capital (che evidentemente pensa ci sia del ritorno) e si sviluppa, anche se non in modo esclusivo, attraverso il lavoro di start-up e spin-off universitarie.



Solo nell’ultimo mese si sono susseguiti gli annunci su nuove iniziative, ma sono anche emersi alcuni punti critici. A nostro parere l’iniziativa più interessante è Pearlita Foods, una start-up americana giovanissima nata nel febbraio di quest’anno e che è venuta allo scoperto alla fine dello scorso mese di giugno nel corso di un evento organizzato dal gruppo Bühler, il gigante svizzero delle macchine e degli impianti per la produzione in un gran numero di campi, tra cui l’alimentare. La fondatrice di Pearlita è Nikita Michelsen, nata in Danimarca, cresciuta in Svezia e dal 2011 negli Stati Uniti. L’obiettivo è nientemeno che la crescita in coltura cellulare di molluschi, in particolare di ostriche, che siano indistinguibili da quelle vere sia dal punto di vista organolettico che nutritivo.

Le ragioni dell’iniziativa, oltre alla curiosità scientifica, vengono attribuite alla rarità delle ostriche selvagge, causata da inquinamento ambientale e cambiamenti climatici, e al rischio di contaminazione batterica, chimica e da microplastiche, per quelle allevate. Certamente le ostriche sono animali piuttosto esigenti dal punto di vista dell’intervallo di temperatura in cui crescono e delle condizioni ambientali (ricambio d’acqua continuo), ma forse l’uomo c’entra più per l’azione diretta (leggasi, pesca eccessiva) che per quella indiretta. Quanto alla contaminazione da batteri (i coliformi fecali) e da metalli pesanti, oggi la situazione è meno grave di qualche decennio fa dove si sono installati depuratori e li si fanno funzionare. Sulle microplastiche il problema esiste, ma le ostriche, appunto perché richiedono continuo ricambio d’acqua, sono forse i molluschi meno a rischio.

L’altra motivazione dell’azienda nella sua mission è la possibilità di allargare la platea dei consumatori che oggi, per motivi di costo, è solo il 30% di quella potenziale, anche se Pearlita si concentra sulle ostriche appunto perché il prezzo è alto e tale da lasciare spazio a un prodotto cell-based che non costerà poco. Sorvoliamo sul richiamo ai principi etici che ormai è diventato un punto obbligatorio nei briefing per le start-up del settore alimentare e non solo. Più convincente, proprio partendo da possibili pressioni animaliste e cancel, è il richiamo alla protezione di una tradizione culturale propria dei Paesi del Nord Europa e America. Alla fine, è la stessa motivazione di fondo che ha spinto un’azienda inglese, come abbiamo riportato diversi mesi fa, a sviluppare il caviale cell-based: mettersi al riparo dai fanatici della cancel culture e simili.

Nulla si sa sulle tecnologie e i metodi messi in campo, ma ormai sono abbastanza standard. Si prelevano cellule e tessuti dagli organismi che si vogliono replicare in vitro. Far moltiplicare le cellule è abbastanza semplice. Il difficile è ricostruire la struttura dei tessuti che è quello che dà l’impressione organolettica, la texture. Ogni organismo ha la sua, anzi più di una. I produttori di hamburger cell-based hanno impiegato dieci anni a risolvere (forse) il problema. Però noi facciamo i migliori auguri a Nikita Michelsen e ai suoi, anche perché già sono riusciti a convincere i finanziatori di Sustainable Food Ventures e il New Proteins Fund di Big Idea Ventures. E solo il New Proteins Fund ha una dotazione di 50 milioni di dollari.



Chi invece non deve preoccuparsi di trovare i fondi è Calidad Pascual, grande azienda casearia spagnola. Pascual ha appena lanciato, attraverso il suo braccio di capitale di rischio Innoventures, la seconda edizione del programma Mylkcubator, in collaborazione con Eatable Adventures, un acceleratore globale nel settore food. Il programma seleziona start-up attive nel settore delle proteine alternative cell-based e fermentate per il caseario e le prepara con un percorso di sei mesi a presentarsi sul mercato e ai finanziatori. Cell-based e fermentazione di precisione sono tecnologie complementari a quelle utilizzate nel settore caseario tradizionale, ma comunque sono potenzialmente disruptive. Perché quindi un attore importante del settore finanzia chi potrebbe metterlo in difficoltà? La risposta l’ha data in modo chiaro Innoventures durante una recente conferenza: in primo luogo è meglio far parte dello sconvolgimento per offrire tutte le alternative possibili, e in secondo luogo è come un’assicurazione sulla vita nel caso accadesse qualcosa al settore caseario tradizionale.

Quello che potrebbe succedere si può intuire dal risultato di una recente ricerca motivazionale sul consumo di latte e dei suoi derivati di cui hanno brevemente parlato anche i giornali italiani pur senza coglierne appieno il senso. Arla Foods, una cooperativa casearia globale che è controllata dai produttori-soci (è presente anche in Italia) con marchi come Lurpack e Tre Stelle, ha condotto l’inchiesta nel Regno Unito. Poco meno della metà degli intervistati afferma di volere cambiare in modo importante la propria dieta sulla base di quello che leggono sui social media, con il 34% che si basa SOLO sui social media. Questa è una conseguenza diretta del fatto che il 18% considera di per sé i social come fonte di informazione, mentre il 15% si informa attraverso i meme. Il 36% rilancia quello che legge come se fosse una sua opinione, senza dichiarare la fonte. Sono tutti fenomeni ben noti tra chi studia i social media, ma è una delle prime volte che viene trovata una possibile connessione causale esclusiva tra social e azioni nel mondo reale, soprattutto nel comportamento alimentare.

Se si restringe il campo alla cosiddetta Generazione Z, nati tra la fine del ‘900 e il 2010, la percentuale di chi si fa guidare dai social nelle proprie decisioni alimentari sale al 55%.Nel settore del latte e dei derivati i dati sono ancora più polarizzati: il 70% degli Z vorrebbe continuare a bere latte, ma il 57% intende smettere entro un anno. Aldilà delle battute perfide che si potrebbero fare su questo tipo di risposte, resta il fatto che il 49% degli Z si vergognano di ordinare latte o suoi derivati in locali pubblici se ci sono dei pari-età. In tutte le altre classi d’età, la percentuale è dell’8%. Di conseguenza, il 29% ordina latte di soia e derivati (come il tofu) in pubblico e beve latte di mucca e mangia formaggi a casa. Può sembrare una buona notizia, ma dimostra invece che già una percentuale importante di Z ha introiettato la pressione sociale dei pari cambiando un comportamento che invece manterrebbe.

La causa primaria della vergogna deriva dal fatto che il 41% degli intervistati ritiene che sostituire prodotti animali con derivati vegetali costituisca una scelta sostenibile, ma solo il 27% ritiene che sia una scelta assoluta, mentre il 65% sente la pressione di abbandonare i derivati del latte ma non intende farlo.

La pressione sociale non avviene mai per caso. Ci sono degli agenti che spingono in una direzione o in un’altra, come è stato ben dimostrato dagli studi sociologici e medici sul consumo di tabacco lavorato, con una combinazione di modelli di comportamento sorretti dai media e forse da additivi (per chi fosse interessato: https://ec.europa.eu/health/scientific_committees/opinions_layman/tobacco/en/l-3/5.htm).

Il tabacco contiene la nicotina che notoriamente causa dipendenza. I cibi fake no. La pressione sociale però può essere aiutata lo stesso per indirizzare il comportamento alimentare. L’industria ci si è buttata a pesce, anche perché lo stesso avviene per tutti i cibi processati e soprattutto iperprocessati. E tutti i cibi basati su alternative plant-based a proteine animali sono iperprocessati. Per fare un solo esempio restando nel campo dei formaggi e dei derivati del latte, un settore in grande crescita è quello dei colori, che, recita un promozionale di un’azienda leader nel settore, deve fornire le indicazioni “appetitizzanti” prima ancora che il consumatore potenziale debba assaggiare i prodotti. In effetti un ceddar grigio (il colore naturale del sostituto plant-based) non è molto invitante. L’uso dei coloranti nei cibi industriali è antico, direte voi. Certo, ma si trattava e si tratta di far combaciare l’aspetto naturale dei cibi con quello indotto per motivi culturali (esempio classico è lo sciroppo di menta che è grigio-verde e diventa verde brillante per farlo assomigliare al verde delle foglie). Qui si tratta invece di travestire un cibo da un altro. Appunto, un fake food. Una tendenza che va contro tutte le litanie sulla naturalità che invadono i media. E anche i social. Ma per chi si sente comunque più accettato dai pari consumandoli, prosit.



 

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