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Le alternative alle plastiche monouso. Un po’ di chiarezza.

Lo scorso 14 gennaio è entrata in vigore la legge italiana di recepimento della direttiva UE del 2018 su alcune categorie di prodotti in plastica monouso, SUP (Single Use Plastics). Si tratta di piatti e posate, cannucce per bibite, agitatori per bevande, aste dei palloncini, contenitori per cibi e bevande in polistirolo espanso con relativi tappi e coperchi, cotton fioc. La direttiva europea è molto discussa soprattutto nella sua volontà di spingere la bioplastica compostabile, come vedremo dopo. La legge italiana ha comunque preso in mano la faccenda introducendo diverse eccezioni: è ammessa per quei prodotti anche la bioplastica biodegradabile, e sono esclusi dal divieto quelli per i quali la plastica di rivestimento rappresenti meno del 10% del peso (per esempio, i bicchieri di carta per bevande calde e fredde). Restano anche in Italia gli obiettivi del 90% delle bottiglie di plastica raccolte in differenziata e del 25% di PET riciclato nelle bottiglie entro il 2025, percentuale che dovrà salire al 30% entro il 2030. Obiettivi non ambiziosissimi questi ultimi, dal momento che l’industria è già in grado oggi di produrre bottiglie riciclate al 100% anche per bevande gasate.



L’ammortizzatore finale alla sparizione dall’uso di prodotti previsti nella direttiva è comunque la concessione dell’utilizzo fino ad esaurimento scorte, a patto che sia dimostrabile che l’immissione sul mercato sia avvenuta prima del 14 gennaio. Siamo abbastanza certi che i magazzini degli utilizzatori della SUP siano pieni fino all’orlo, mentre quelli dei produttori e distributori siano vuoti.


L’entrata in vigore della legge ha scatenato la corsa sui media alle alternative. La situazione varia da prodotto a prodotto. Per le cannucce per bevande, per esempio, è bastato tornare a quelle di carta, che con il progresso tecnologico sono migliori di quelle che si usavano 50 anni fa. Se poi si vuole essere ancora più “nature” si può sempre ricorrere alle cannucce di paglia di giunco. I Sumeri bevevano la birra con la cannuccia di giunco (non era filtrata, e ci scappavano i chicchi d’orzo), quindi… nessuna nostalgia di quelle di plastica. Gli aperitivari non me ne vogliano.

Le cose si complicano per piatti, bicchieri e posate. Se si vuol restare sul monouso e non ricorrere alle deroghe della legge italiana (carta accoppiata con PET), una soluzione non è il bambù. Perché non è bambù, ma polvere e scaglie di bambù miscelati con una resina per fare una pasta e poi formati secondo l’esigenza. Il problema è che la resina, soprattutto se gli alimenti e le bevande sono calde o contengono limone o aceto o anche pomodoro, rilascia sostanze che si trasferiscono agli alimenti. Si tratta di formaldeide e melammina che, anche se presenti sotto i limiti di legge, non hanno un comportamento noto sul lungo periodo. La Svizzera sta infatti per vietare il commercio delle stoviglie in bambù. Decisioni analoghe sono state prese da altri sei stati europei, cioè Austria, Finlandia, Danimarca, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo. In Germania esse sono invece sconsigliate per alimenti caldi. Oltre tutto, la presenza della resina rende questi prodotti non solo non biodegradabili e compostabili, ma anche difficili da riciclare essendo dei compositi con ingredienti non standardizzati. Insomma, finiscono sparati in discarica come indifferenziata.


Il caso dei contenitori (e relativi coperchi) di polistirolo espanso fa emergere un paradosso della direttiva europea e della legge italiana. Il polistirolo espanso ha un uso universale come isolante termico (le scatole con cui si trasportano i vaccini anti-Covid lo usano per i rivestimenti esterni). Non per nulla di questo materiale sono fatte le vaschette del gelato d’asporto. La proibizione dei bicchieri di polistirolo si basa sul fatto che la vaschetta è un imballo e il bicchiere (con relativo coperchio) è un monouso. Ma anche la vaschetta è monouso, direte voi. E oggi non esiste un sostituto del polistirolo, diranno i chimici. Avete ragione in entrambi i casi.

Si potrebbe continuare, ma forse sarebbe meglio fare una considerazione. Quando si parla di monouso in realtà sarebbe meglio parlare di usa-e-getta. Senza considerare per esempio le bottiglie di vetro di vino e birra, che nel 95% dei casi sono monouso, o le lattine, che lo sono nel 100%, e restando nell’ambito della plastica, le bottigliette d’acqua (pensiamo alle monodose) sono monouso. Non sono considerate usa e getta perché per le bottiglie di PET di ogni dimensione è da anni funzionante un sistema di raccolta, selezione e riciclo che funziona (potrebbe funzionare meglio, ma non ci interessa in questo momento). Allora, la vera alternativa alla plastica monouso non sempre sono altri materiali e nemmeno le bioplastiche compostabili spinte dalla UE. Lo è invece il riciclo, che produce un poliuso del materiale anche se il prodotto singolo viene usato una sola volta. Quello che succede per il vetro e l’alluminio.


Anche da un punto di vista strettamente ambientale, evitare le bioplastiche compostabili, e ancor più quelle biodegradabili, è molto più scientificamente corretto, sia nel senso della dispersione nell’ambiente (la direttiva europea viene presentata esplicitamente come uno strumento per salvare i mari e gli oceani dalla plastica) che del bilancio della CO2. Il perché è presto detto.

Uno studio notissimo condotto dall’International Marine Litter Research Unit dell’Università di Plymouth, tra l’altro dibattuto durante la prepazione della Direttiva SUP della UE, ha cercato di misurare il degrado di plastiche e bioplastiche nell’ambiente. Lo studio ha preso in considerazione quattro tipologie di buste per la spesa composte da bioplastiche biodegradabili in aggiunta ad un tipo in polietilene ad alta densità. I sacchetti sono stati collocati in ambiente naturale per tre anni, a contatto col terreno, con l’aria e sommersi in un metro d’acqua in area portuale. Risultato: trascorsi i tre anni nessun tipo di plastica biodegradabile garantisce il completo riassorbimento.


Venendo alla CO2, le norme internazionali prevedono che un prodotto sia biodegradabile se, inserito in un contenitore ad aerazione forzata in presenza di microorganismi e calore (tra 50 e 60 gradi, fino a 70), dopo 180 giorni si sia ridotto ad un 10% di biomassa, acqua e un 90% di CO2, che si disperde in atmosfera. In effetti una bioplastica biodegradabile o compostabile è progettata per scaricare la massima parte del suo carbonio sotto forma di CO2. Ma in termini di bilancio della CO2, è meglio che il carbonio resti intrappolato nella plastica non biodegradabile piuttosto che ritorni in circolo rapidamente (180 giorni sono un nulla rispetto alla stima di 400 anni della durata della plastica). Sarebbe allora necessario spingere sulle plastiche biobased NON biodegradabili ma RICICLABILI e su metodi per rendere il riciclo senza fine, come per i metalli.

Che non si sia nemmeno pensato a livello UE di impostare un sistema di riciclo almeno dei piatti, dei bicchieri e delle posate monouso, spingendo contemporaneamente verso l’uso di fonti biobased per prodotti non-biodegradabili ma riciclabili, è per chi scrive incomprensibile.


 

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