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Birra ghiacciata, barbecue e...burger testurizzato

Il recente via libera del Parlamento Europeo all’utilizzo di denominazioni come hamburger e prosciutto per prodotti ultraprocessati a base vegetale - ce ne siamo occupati dal punto di vista semantico nell’articolo Hambuger (di carne) vs Hamburger (senza carne) - ha riportato all’attenzione la crescita di questa categoria di cibo industriale. Oggi il 50% delle calorie assunte in media dalla popolazione americana e del Regno Unito è contenuta in cibo ultraprocessato, ma la tendenza è in crescita impetuosa nel resto d’Europa e anche in Italia siamo attorno al 33%.

Ciò che impressiona, e fa pensare, è che nel corso degli ultimi cinque-sette anni sono cambiati i driver della crescita. Se prima era la mancanza di tempo e il mangiare fuori casa a spingere l’ultraprocessato, oggi è paradossalmente la moda/religione VEG a trainare, e in particolare quella versione “mondana” (stavo per scrivere “ansiolitica”) del VEG che punta a sostituire i cibi tradizionali con succedanei a base vegetale: stesso aspetto, stesso sapore, stesso odore, stessa texture (l’impressione che se ne ha quando la si mastica), persino lo stesso comportamento quando cucinati (i burger veg più sofisticati “sanguinano”!). Piccolo inciso storico, i primi cibi “superprocessati” sono stati i salumi, che servivano non solo per conservarli a lungo ma anche per poterseli portare dietro; cucinare una braciola di maiale in una nave omerica è un conto, mangiarsi una luganega (da lukanikà, i lucani 2600 anni fa già ne producevano a sfare), un altro.


Quelli moderni, però, inutile girarci attorno, sono dei “fake food”. Nessuna novità, la cucina “povera” (che poi era quasi tutta) è piena di esempi di piatti che imitano vivande più pregiate e costose. Paradossalmente questi “fake” costano più degli originali, il loro “valore” sta nella “peace of mind” di chi li mangia. Il problema è che per ottenere la mimesi perfetta, l’industria alimentare deve mettere in campo tutte le tecniche, le tecnologie, gli ingredienti, gli aromi, i coloranti, gli addensanti eccetera a sua disposizione, purché vegetali o minerali. Animal anathema sit!


I driver cambiano ma gli attori e i loro interessi sono sempre gli stessi: l’industria alimentare prosegue nella sua marcia e fatalmente ha poco interesse nei cibi dove può fare poco, sarebbe come pretendere che un produttore di mobili in kit facesse pubblicità all’autoproduzione in massello. Nulla di male, se non per il fatto che la bocca e le pance delle persone quelle sono, oltre che il tempo e le capacità culinarie, quindi è inevitabile che per crescere un tipo di cibo deve fare posto all’altro, in un modo o nell’altro. Chi ha occhi per leggere, capisca.


Non stiamo accusando nessuno di comportamenti e schemi maligni, anche perché non avrebbe senso, ma è un fatto che meno si parla nei media e nei forum consumer di come sono fatti i cibi ultraprocessati, soprattutto quelli vegan, meglio sembra essere. Chi sa per esempio che i citati burger sono fatti nella maggior parte dei casi partendo da quello che rimane del fagiolo di soia (avete presente gli edamame? Quelli, però maturi) dopo che si è estratto l’olio con procedimenti chimici a base di solventi (ora si sta diffondendo l’uso della CO2 supercritica, alla ricerca di un riscatto green dopo essere stata definita “inquinante” sui media di grande diffusione). A proposito, l’olio grezzo di soia puzza da morire, va deodorizzato (gli amici vegan diranno che ha sapore e odore “molto forti”). Le proteine vengono poi messe in forma con processi vari, in particolare la testurizzazione, che consiste nella trasformazione delle proteine globulari della soia in strutture fibrose e lamellari simili a quelle dei muscoli animali, per via igro-termo-meccanica, oppure in grani e simil-crocchette con l’estrusione, un processo meccanico identico a quello con cui si produce il polistirolo espanso ed altri estrusi di plastica (anche le macchine sono praticamente uguali…). Non basta questo per fare un burger veg, vanno aggiunti diversi altri ingredienti. Il “sangue”? È eme, la componente dell’emoglobina che dà il colore rosso e il sapore vagamente metallico. Ora si ricava da certi tipi di microalghe. Il linguaggio non mette molto appetito? Bisogna soffrire per andare in paradiso.

Dal momento che ognuno dovrebbe poter mangiare quello che gli pare, al netto del proselitismo religioso, quel che preoccupa in una società che si agita a ogni piè sospinto a favore della “genuinità” è che in un settore fondamentale come il cibo si proceda di gran carriera verso un’alimentazione fatta di cibi che non sono quello sembrano. L’innovazione procede: per esempio forse l’era della soia sta finendo a favore dei piselli. L’industria, che da il meglio di sé in quanto ad inventiva e fantasia, ringrazia. E quasi tutti sono contenti.


Ultima cosa. La maggior parte degli ultraprocessati comporta un vantaggio: sono a lunga conservazione o comunque la loro shelf life non dipende da basse temperature. Meglio, è molto semplice crearne delle versioni così. A volte si ha l’impressione che certi cibi ultraprocessati finiscano negli espositori refrigerati più per “immagine” di freschezza che per vera necessità. Fare a meno della catena del freddo è un obiettivo dei produttori alimentari e soprattutto della grande distribuzione, perché la logistica è molto più semplice e i mezzi di trasporto costano meno. Ci sarebbe anche da dire che un burger vegano “degrada” in modo più “soft” di uno animale. E mi fermo. Non è detto che il fresco la trionferà.


 

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