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Il DNA come un codice a barre

La tracciabilità del cibo che arriva sulle tavole è uno strumento potente per la sicurezza alimentare. Da diverso tempo ormai le confezioni riportano le informazioni relative al lotto di lavorazione che permette di identificare in modo univoco tutte le confezioni di una determinata serie. Questo consente per esempio di bloccare in modo precauzionale la vendita di un certo lotto di prodotto in caso si verifichino dei problemi (infezioni alimentari, presenza di corpi estranei, etc.). Recenti evoluzioni tecnologiche permettono di arrivare a identificare persino la storia di una singola confezione, ad esempio di una bottiglia di vino o di olio. In questi casi si utilizza un codice QR che può contenere un numero molto più elevato di informazioni di un codice a barre.



Molti dei cibi che mangiamo, però, non possono essere identificati con aggiunte di codici o tag in tutti i loro ingredienti. Per esempio, una confezione di insalata mista pronta da mangiare può contenere foglie e semi di varia provenienza, spesso molto diversi tra di loro. In questo caso, la tracciabilità si ferma a chi assembla il prodotto, ammesso che lui o i suoi fornitori siano in grado di tracciare i singoli ingredienti. Passando ai cibi cotti o alla carne e al pesce, il problema si complica ulteriormente. La soluzione può venire solo da un marcatore che, impiantato all’origine, non si degradi nei vari passaggi e lavorazioni che un alimento o un ingrediente compie prima di arrivare in tavola. Entra in campo un microrganismo, il lievito.


I lieviti sono una categoria di funghi caratterizzati da un unico tipo di cellule che si trovano naturalmente o artificialmente in moltissimi cibi. Con un tipo di lievito (il Saccharomyces cerevisiae) si fanno il pane e altri prodotti da forno, i vini e la birra. Questo lievito è stato il primo microorganismo ad avere il DNA completamente decodificato, tanto da identificare i singoli ceppi. Un cibo che contiene un determinato ceppo di lievito può quindi essere identificato con estrema precisione e tracciato, a patto di essere in grado di rilevare minuscole quantità di DNA. Inoltre, il DNA del lievito resiste anche a trattamenti violenti come la cottura. Se il tracciato univoco di un ceppo di lievito viene registrato e accoppiato ad un determinato lotto di ingrediente o alimento in un sistema di conservazione di dati sicuro e immodificabile, come una blockchain, esso potrà indicare che un certo prodotto contiene un certo ingrediente anche dopo numerosi passaggi e trasformazioni.


Su questa base scientifica una società canadese, la Index Biosystems, ha messo a punto un marcatore, denominato BioTag, che utilizza un lievito inattivato caratterizzato con precisione e unicità dal punto di vista genetico. Ogni confezione o lotto di confezioni di BioTag (che è una polvere diluibile in acqua) ha la sua firma unica. Mischiato ad acqua con una concentrazione molto bassa, il BioTag viene spruzzato su di un alimento a cui aderisce strettamente. La presenza del BioTag viene rilevata con tecniche molecolari come la PCR (polymerase chain reaction) e il sequenziamento del DNA.



Per fare un esempio, un produttore o commerciante di granaglie è così in grado di identificare il proprio prodotto sempre e ovunque. Questo è uno strumento molto potente nella risoluzione di dispute commerciali. Ma non è tutto. BioTag persiste anche dopo la macinazione dei chicchi (quindi la farina resta identificabile) e dopo la cattura (quindi anche l’ingrediente del pane, della pasta, degli altri prodotti da forno è sempre identificabile). La tecnologia funziona su tutti i tipi di alimenti. Una volta che il BioTag è stato applicato, resta rilevabile.


La tecnologia BioTag insieme a quelle sperimentali che ricorrono a spore batteriche (che funzionano anche per il tracciamento di cose diverse dagli alimenti) studiate da ricercatori dell’Università di Harvard, risolvono così il problema dell’origine iniziale degli ingredienti di un alimento, specie se l’informazione dell’accoppiamento tra origine e sequenza genetica viene conservata in una blockchain che, come tale, è immodificabile. È richiesta sempre la collaborazione del produttore iniziale, ma quest’ultimo ha quasi sempre interesse a dimostrare l’origine del suo ingrediente perché spesso i problemi di sicurezza alimentare sono dovuti a fasi successive della lavorazione di un alimento o alla sua cattiva conservazione quando è già entrato nella catena distributiva. Mette forse in difficoltà proprio le catene distributive, specie quando queste ultime utilizzano il concetto di filiera controllata come strumento di marketing. In questo modo se un ingrediente o un alimento viene modificato come origine, per esempio a seguito di una campagna, una terza parte può rilevarlo.



 

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