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Acqua in Italia: il problema non è quanto, ma quando

L’andamento del dibattito sulla disponibilità di acqua dolce in Italia è sembrato negli ultimi mesi un incrocio tra i film dei fratelli Marx e i commenti di Arbasino: signora mia, che tempi! Tra febbraio e la fine di marzo si era in piena tendenza deserto. Poi siamo passati senza soluzione di continuità agli allarmi monsonici. Infine, è di questi giorni l’inizio dei lamenti sul ritardo di quel fannullone dell’Anticiclone delle Azzorre e di quel mascalzone del suo cugino Africano. È indubbio che siamo entrati in una fase di maggiore variabilità delle precipitazioni. Le stime del fabbisogno agricolo di acqua in Italia si aggirano attorno ai 14 miliardi di metri cubi (circo il 60% del consumo totale di acqua dolce) e sul territorio nazionale continuano a cadere, in una forma o nell’altra, 300 miliardi di metri cubi d’acqua l’anno. L’acqua non cade nei tempi a cui ci eravamo abituati negli ultimi 70 anni, ma è compito nostro gestirla in modo che sia disponibile quando serve. Conservarla è un modo. Bisogna ricordare infatti che l’anno scorso il nostro sud è uscito praticamente indenne dalla siccità grazie agli invasi costruiti sino a tutti gli anni ’70. A nord si sta correndo ai ripari, ma bisogna correre di più, anche perché gli invasi hanno anche la funzione di trattenere l’acqua durante i nubifragi.



Un altro modo è utilizzare in modo mirato l’acqua in uscita dai depuratori. Oggi essa viene riversata nel sistema delle acque superficiali e si disperde. In parte viene poi intercettata per usi agricoli, ma potrebbe invece essere tutta dedicata ad essi. Secondo uno studio di Utilitalia dello scorso anno, su un campione di 7000 impianti che coprono il 56,6% della popolazione, per 3,2 miliardi di metri cubi depurati solo il 6% viene riutilizzato, anche se la percentuale potrebbe essere già da subito del 26%. In cifre assolute si tratta rispettivamente di 192 e 832 milioni di metri cubi circa. L’83% dei flussi riutilizzati va all’agricoltura, in gran parte riversando l’acqua in canali agricoli esistenti. Se si utilizzasse poi tutta l’acqua disponibile cui già si applicano i trattamenti previsti per legge per l’acqua ad uso agricolo, la quantità disponibile salirebbe a sfiorare i 2,5 miliardi di metri cubi, che pantografati sui 18.000 impianti di depurazione attivi a livello nazionale arriverebbe a 4,2 miliardi, più altri 1,2 miliardi se si trattassero con le dovute tecnologie anche le acque oggi non riutilizzabili in agricoltura per pochissimo. Questi 5,4 miliardi di metri cubi rappresentano il 60% dei 9 miliardi di metri cubi di acqua che passa nei depuratori, ma soprattutto più di un terzo dei famosi 14 miliardi di fabbisogno. Problema risolto? Naturalmente no.


Vanno fatti investimenti non solo in canalizzazioni e tubature, ma anche in invasi. L’acqua da depurazione è disponibile in modo continuo, mentre la richiesta si concentra in periodi specifici. Ancora una volta non è quanto ma quando. Il quanto ha però la sua rivincita sul fronte dei costi. Secondo i calcoli di Utilitalia, considerando il recupero dell’investimento e i costi ricorrenti, solo per andare in pari l’acqua ad uso irriguo dovrebbe costare in media 0,56 euro al metro cubo. Oggi la media nazionale oscilla da 1 e 2 centesimi di euro a metro cubo, con variabilità enormi. L’anno scorso in piena siccità il Consorzio di Bonifica Parmense ha fatto pagare un metro cubo destinato a colture di mais da granella da 0,041 a 0,053 euro secondo il tipo di terreno. Nell’imperiese di ponente nel mese di marzo 2022 l’acqua irrigua è arrivata a costare 1,82 euro al metro cubo, mentre costava “solo” 0,30 euro nell’imperiese di levante. Il riutilizzo diretto in agricoltura dell’acqua depurata non è quindi una soluzione universalmente applicabile. A differenza di oggi, però, entro la fine del mese il suo non utilizzo dovrà essere giustificato. Entro il 26 di questo mese, infatti, dovrà essere recepito dalla normativa il regolamento europeo 2020/741 che prevede la massima diffusione della pratica. Il recepimento dovrebbe avvenire attraverso il cosiddetto Decreto Siccità, in approvazione in Parlamento.


E la dissalazione o desalinizzazione? Se ne è parlato moltissimo lo scorso marzo. L’hanno invocata sia il presidente del Veneto Zaia che il sindaco di Genova Bucci e, su scala più ampia, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti (MIT). I fondi arriverebbero dal PNRR. Il primo ostacolo sono i costi. Oggi le migliori tecnologie permettono un costo medio di 43-50 centesimi di dollaro per metro cubo, ma senza tener conto del recupero degli investimenti e della manutenzione. Diciamo quindi che il costo vero si avvicina oggi piuttosto al dollaro al metro cubo, ossia una novantina di centesimi. Chiaramente in zone dove l’acqua dolce non c’è ma c’è il mare vicino, è un prezzo conveniente, anche perché le stesse zone sono di solito anche potenzialmente ricche di energia eolica e solare. E l’energia, che anche i dissalatori a membrana di ultima generazione consumano in quantità, è una variabile molto influente sul costo dell’acqua dissalata.



C’è un secondo ostacolo, ovvero cosa fare delle salamoie, i concentrati acquei ipersalini che rimangono dopo il processo di dissalazione. Le loro caratteristiche variano molto in base all’acqua di partenza e alla tecnologia utilizzata. Se si usa acqua di mare a salinità normale e un processo a membrana a osmosi inversa, si rimane con il 60% dell’acqua di partenza e concentrazione salina conseguente. Se invece si parte da acqua salmastra, ad esempio quella che si infiltra nei terreni nei pressi delle foci dei fiumi quando cala la portata, il residuo è pari al 35%. Oggi le salamoie da dissalazione vengono per la maggior parte riversate in mare. Essendo più pesanti dell’acqua, senza adeguati interventi tendono a creare uno strato ipersalino che può provocare danni ambientali anche gravi, per esempio assorbendo l’ossigeno disciolto e creando dunque zone anossiche. Inoltre, nelle salamoie, oltre ai sali naturalmente disciolti, si trovano anche i residui dei preparati chimici utilizzati per pretrattare l’acqua e per tenere pulite tubature, pompe e membrane (rispettivamente l’idrossido di sodio, ossia la soda caustica, e l’acido cloridrico). Le soluzioni adottate si basano sul principio della riduzione delle concentrazioni: portare la salamoia con un tubo all’interno di una forte corrente per accelerarne la dispersione; stendere un tubo per lunghi tratti del fondale praticando dei fori a cui sono applicate valvole di ritenzione in gomma, ed espellere la salamoia con una pompa premente; diluire la salamoia con altra acqua, per esempio quella marina pescata in quantità maggiore di quella necessaria al dissalatore.


Il terzo ostacolo è la legislazione italiana. La legge cosiddetta Salvamare (17 maggio 2022, n. 60) prescrive che gli impianti di dissalazione possono essere realizzati, previa Valutazione di Impatto Ambientale, solo in «situazioni di comprovata carenza idrica e in mancanza di fonti idrico-potabili alternative economicamente sostenibili». A ben guardare, anche l’uso di navi cisterna operate dalla Marina Militare a prezzo “politico” potrebbe essere considerato economicamente sostenibile. Una scappatoia potrebbe essere rappresentata dalla menzione specifica della potabilità. L’acqua destinata all’agricoltura non deve essere potabile, ma certo in questo modo l’asticella del prezzo al metro cubo si alza di molto e l’acqua dissalata, non tenendo conto della gestione delle salamoie, avrebbe un prezzo superiore a quello di quella da depurazione.


La vera soluzione, se in Italia si credesse realmente nell’economia circolare, sarebbe un’applicazione dei principi della simbiosi industriale, secondo i quali gli scarti ed i sottoprodotti di un settore diventano le materie prime di un altro. Le salamoie contengono disciolti praticamente tutti gli elementi presenti nella crosta terrestre. Un recente studio del MIT (quello di Boston) evidenzia che, già solo recuperando i già citati composti utilizzati negli impianti con processi sostenibili come l’elettrosintesi diretta, si avrebbe un guadagno in termini di costi e di impatto ambientale. Ma si può andare oltre. Eccetto che per pochi elementi, l’estrazione diretta dall’acqua di mare non è oggi economicamente fattibile, ma per le salamoie la questione è differente. Uno studio del 2015 poneva l’uranio già al confine della convenienza a basse concentrazioni, il fosforo, sempre più ricercato, appena più in là, mentre per altri elementi come il rubidio e il litio l’estrazione sarebbe già conveniente a concentrazioni naturali. Nelle salamoie in uscita dai dissalatori le concentrazioni sono anche 2,5 volte più alte. I metodi di estrazione sono diversi, da quelli semplici come l’evaporazione in bacini o in vasche di acciaio a quelli più sofisticati come la già citata elettrosintesi. Perfetta simbiosi tra acqua dissalata ed elementi preziosi. Forse il vero Salvamare è questo.


Questo testo utilizza anche parte di articoli dello stesso autore pubblicati sulla Rivista Waste.


 

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