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Trent’anni dopo

Due mesi fa o giù di lì, rimettendo ordine nel nostro ufficio dopo un lunga assenza, è riemerso da uno scaffale defilato una pubblicazione della benemerita casa editrice Automobilia risalente al 1990, un numero speciale del periodico Le Grandi Automobili dedicato a L’Automobile del futuro, 2010-2020. Direttore Bruno Alfieri, un tipo che descrivere con poche parole è impossibile (curatore della prima mostra europea di Jackson Pollock a Venezia nel 1950…). Altri tempi, altra gente.


Tornando alla pubblicazione, la copertina riporta lo schizzo (dell’IDEA Institute) di uno strano veicolo indossabile. Gli autori degli articoli sono gente come Gillo Dorfles, Renzo Piano, Bruno Sacco, Giorgetto Giugiaro…con cameo persino di Cesare Romiti. E subito ci siamo chiesti: ma tutti questi visionari, pensando all’automobile del 2020, cosa vedevano? L’idea non è quella dei giornali e siti a confronto con le previsioni sull’oggi visti da oggi, ma di capire perché “ci hanno preso” o no. Magari per mettere la tara su tante previsioni su “niente sarà più come prima” che infestano tutti i media.

La prima cosa che emerge dalle parole e dalla immagini datate 1990 è la totale mancanza di qualsiasi cosa anche vagamente simile al dominatore visivo, e non solo, delle strade oggi: il SUV, e nemmeno il suo fratello minore, il crossover. Un concept di piccolo fuoristrada Targa, ispirato al Jimmy Suzuky del periodo, spunta tra berline e coupé dalle forme aerodinamiche, basse e slanciate. E poi tante monovolume, soprattutto piccole, anche monoposto. Gillo Dorfles ci vede persino il segno di una progressiva “ovalizzazione” dell’auto, una prospettiva perfettamente razionale, ma come si è visto tutt’altro che dominante nei decenni successivi. E molta mobilità leggera, dal concept wearable della copertina, che si rivela come un veicolo trasformabile, da passeggiata cittadina fino qualcosa di molto simile a un veicolo da competizione con il pilota che diventa parte della struttura, a oggetti di mobilità più mondani, guidati da gentili signore e signorine, ma sedute. Dei passeggini oversize e pieghevoli, che sono in realtà i sedili di piccole citycar per fare poche centinaia di metri nelle aree car-free. Difficilmente compatibili con le regole di sicurezza in vigore oggi.


Aree car-free previste da Idea Institute (ma il concetto era vecchio di almeno 50 anni, si era visto nel padiglione Futurama di General Motors all’Expo di New York nel 1939, giustamente ricordato nella pubblicazione) nel suo concept di viabilità integrata urbana per la città di Londra, con piccole citycar monovolume che circolano su sedi ben separate dalle aree pedonali. Con aspetti meno futuristici, questa visione si è avverata in molte città ed è a la forma preferita per tutte le nuove pianificazioni e rinnovamenti urbani.


Dal punto di vista della tecnologia, il lungo saggio inserito nella pubblicazione accenna al ruolo delle regolamentazioni, soprattutto sulla sicurezza anti-inquinamento, ma a mio parere non ne coglie il ruolo nel guidare l’innovazione. Anzi, ogni cosa che riduce le emissioni e aumenta la sicurezza viene esplicitamente visto come qualcosa che riduce le prestazioni e l’efficienza. E di conseguenza non di interesse per l’acquirente (stranamente dipinto, e siamo nel 1990, come poco interessato alla sicurezza rispetto alle prestazioni). Il ruolo dell’elettronica non è compreso a fondo, forse un riflesso della relativa arretratezza nel settore dell’industria automobilistica italiana (il caso della cessione del brevetto del multijet da parte di FIAT e Bosch è distante solo pochi anni nel futuro). Anche l’iniezione elettronica non viene colta come componente fondamentale per una gestione della combustione, sia in termini di prestazioni e consumi, ma anche di emissioni. Sul fronte dell’elettrico, esso viene evocato in concetti di mobilità integrata, ma le potenzialità delle batterie al litio era ancora al di là dell’orizzonte automobilistico per ispirare qualcosa di diverso da un generale scetticismo.


Dove invece i vari interventi colgono il segno, sono considerazioni di tipo più filosofico, che non vengono sviluppate in pratica ma avranno conferme importanti di lì a poco. La prima è l’inizio del ritorno delle forme iconiche a guidare il lavoro dei designer. Si fanno esplicitamente gli esempi della prima versione della Mazda Mx-5 (la Miata) come ispirata alle piccole spider inglesi degli anni 50-60 e alla meno nota Nissan Be 1 che “rifà il verso” alla Mini Minor. Già nella terminologia si nota una certa sufficienza, ma l’autore non si rendeva conto di stare seduto su un vulcano, nonostante l’allora ripetutissimo mantra che le Case automobilistiche definiscono tutto con sei anni d’anticipo. Tempo pochissimo e il design retrò, o manieristico, sarebbe esploso. È del 1993 la prima idea che porterà di lì a 18 mesi alla favolosa Chrysler Atlantic, ispirata alle Bugatti e alle Talbot-Lago della fine dei ’30. Poi, il diluvio, anche in produzione. Nel 1994 arrivano il concept sia della Mercedes SLK che della Volkswagen New Beetle, entrambe diventate prodotto a tempo di record. Poi la Nuova Mini e infine la 500, già rinata come semplice denominazione a metà dei ’90.


Altro concetto filosofico non sviluppato ma interessante è quello, di matrice IDEA Institute, dell’auto come fortezza semovente a difesa dell’individualità delle persone, da un mondo ostile sia praticamente sia spiritualmente. Interpretazione azzeccata, ma sviluppata in senso di case semovibili in un ambiente ostile, proprio mentre stava esplodendo la mania dei fuoristrada “da città” che poi, su spinta degli USA sarebbe diventato il dominio dei SUV, ormai anche abbastanza ridicolo con l’arrivo dei mini-SUV, sorta di gemelli ristretti dei bestioni da due tonnellate e mezzo usati per portare i figli a scuola.


Comunque, una lettura appassionante di un “prodotto editoriale” che oggi probabilmente non sarebbe possibile, se non altro per il livello degli autori.




 

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