Collegamenti wireless, sensori indossabili, app per il fitness. Sono solo alcuni dei “pezzi” che compongono il mosaico dell’eHealth, un concetto che nel corso del tempo (origina nel 1999, l’epoca della prima esplosione di internet, come quasi tutti i termini con la e- davanti) si è allargato moltissimo. All’inizio era un’evoluzione della telemedicina, e infatti venne proposta al VII Convegno internazionale sul tema, a Londra. Ora raccoglie tanti settori diversi di mercato, tanti concetti diversi di salute e prevenzione, tante tecnologie, servizi e prodotti diversi, che rispondono a necessità e bisogni specifici.
Oggi ci occuperemo di quello specifico settore che prevede il monitoraggio a distanza di alcuni parametri fisiologici di persone che non necessariamente (anzi, nella maggior parte dei casi, no) sono dei pazienti. I dati raccolti attraverso sensori non invasivi vengono messi a disposizione in modalità grezza ad applicazioni locali o remote, oppure in forma elaborata all’utente o a servizi di vario tipo.
Da un punto di vista tecnologico gli ambiti principali sono due, i sensori in grado di rilevare in modo non invasivo i biomarcatori che interessano; il software, che può anche essere di intelligenza artificiale, in grado di estrarre informazioni da segnali anche apparentemente non correlati. I sensori migliori sono quelli che non richiedono l'intervento e collaborazione attiva dell’utilizzatore. I segnali biomarcatori vengono individuati da segnali acustici (come il battito cardiaco, ma anche il suono della voce) o immagini. Nelle ultime generazioni, si tendono a usare sensori ottici.
Il software può essere residente in locale, nello smartphone o nel device che controlla od ospita i sensori, oppure su server remoti. I sensori devono giocoforza essere in locale. In alcuni casi si tratta di utilizzare in modo nuovo quelli già presenti negli smartphone, per esempio telecamera, microfono, geolocalizzatore e accelerometri vari (questi ultimi forniscono gli inp per la app contapassi). Nella maggior parte dei casi i sensori sono parte di dispositivi indossabili, come gli smartwatch, gli smart-ring (nati come device di pagamento) e gli smartglasses in arrivo o, nei casi più sofisticati, di oggetti specializzati, come gilet, fasce eccetera, questi ultimi legati ad applicazioni mirate di fitness o sportive.
Realizzare sensori non invasivi per captare i parametri fisiologici di una persona che sta facendo altro non è banale. Il caso classico è quello della glicemia. Diverse aziende e gruppi di ricerca si sono cimentati su diversi metodi, ma con risultati ancora insoddisfacenti. Per esempio, da diversi anni ad ogni nuova generazione di AppleWatch (siamo alla settima) le solite voci anticipano l’integrazione di un qualche tipo di sensore dei livelli glicemici del sangue. Ora gli Apple watchers puntano all’ottava generazione, forse utilizzando il multisensore a infrarosso attivo (usa microlaser integrati nel silicio del sensore) di Rockley Photonics, una start-up inglese che è già fornitore della Casa di Cupertino. Il sensore di Rockley è abbastanza discriminante da riuscire a individuare la concentrazione anche di acido lattico e di alcol nel sangue, oltre che dell’idratazione.
Peraltro, l’utilizzo di sensori attivi a infrarossi per la misurazione di diversi biomarcatori è una tecnica nota da una quindicina d’anni (si chiama fotopletismografia). Il principio si basa sulla misura del cambiamento di volume dei vasi sanguigni periferici dovuti al ritmo cardiaco, da cui vengono dedotti i valori approssimati dei parametri di interesse. È ormai utilizzato, oltre che in ambiente clinico, anche dai produttori di device indossabili per rilevare diversi biomarcatori in modo abbastanza preciso. Tutti i watch e i device di monitoraggio (come i bracciali per chi fa attività fisica) sono in grado di rilevare frequenza cardiaca, saturazione, elettrocardiogramma, marcatori del sonno, ritmo respiratorio e temperatura. Samsung, e il prossimo AppleWatch 7, anche la pressione sanguigna, tutto tramite questi tipi di sensore, che effettua la spettroscopia della luce di ritorno, emessa di un LED a luce verde, abbastanza intensa da attraversare la pelle.
Una volta in possesso dei valori dei biomarcatori, software di analisi li mettono in correlazione e, oltre a suonare l’allarme in caso di eventi ed evoluzioni pericolose (per esempio, riduzione della saturazione di ossigeno nel sangue), effettuano una diagnosi preliminare e forniscono indicazioni di comportamento. Restando al monitoraggio dell’attività sportiva, correlando glicemia, acido lattico, temperatura, idratazione, ritmo cardiaco e pressione arteriosa, il software è in grado di fornire una fotografia del tasso di affaticamento e di “riserva” fisica in possesso dell’atleta.
Se i dati grezzi e la loro analisi sintetica vengono poi trasferiti tramite rete wireless ad applicazioni, per esempio di intelligenza artificiale, le deduzioni possibili aumentano di molto. Per esempio, analizzando una serie temporale dei parametri derivanti da esercizio fisico di tipo simile, un software di AI è in grado di individuare prima che sia evidente se una metodologia di allenamento sia corretta o meno. È chiaro che nei soggetti a rischio (e questa tecnologia può contribuire a quantificare il rischio in via preventiva) o con condizioni croniche anche se non gravi, questo monitoraggio può essere utilizzato in modo utile con le attività di medicina preventiva.
Di eHealth del tipo esaminato qui e delle possibili integrazioni con altri si parlerà durante una sessione dedicata dell’agenda della Genova Smart Week, dal 29 novembre al 4 dicembre, agenda da noi curata per la terza edizione consecutiva.
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