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Arriva la Terza Era Spaziale: fotovoltaici nello spazio e marines a razzo

Molte cose stanno succedendo sopra le nostre teste. L’attività nello spazio sopra l’atmosfera ha raggiunto livelli quasi frenetici come forse non si vedevano dagli anni 60-70, l’epoca della Prima Era Spaziale. Il numero di satelliti attivi in orbita terrestre ha impiegato 55 anni (dal 1957) per superare il numero di mille, mentre dal 2011 alla fine del 2020 si è arrivati a 3368. Entro il 2025 potrebbero essere lanciati 1100 satelliti all’anno. Solo la costellazione Starlink di SpaceX prevede di lanciarne 12.000 entro il 2027.



A parte l’aspetto quantitativo, però, ciò che più curiosamente caratterizza la nuova era spaziale è la qualità dei progetti, che rappresentano un salto rispetto a quelli che hanno prevalso negli ultimi decenni, tutti bene o male concentrati su qualche variazione del tema osservazione del pianeta/telecomunicazioni. La cosa divertente è che i nuovi progetti sono la riedizione di idee emerse durante la prima era spaziale, quella che comprende gli anni '60 e '70 del secolo scorso. Non occorre pensare alle grandi esplorazioni nel sistema solare, ma a cose più pratiche. Parleremo di due esempi recentissimi, sfuggiti all’attenzione del grande pubblico.


Il primo riguarda la Cina. Sulla scia del completamento della stazione spaziale di Pechino e della prima missione con equipaggio, il capo dello sviluppo dei lanciatori cinesi della serie Lunga Marcia, Long Lehao, ha annunciato che la prossima versione del razzo, denominata LM-9, verrà utilizzata per collocare in orbita geostazionaria, quella attualmente occupata principalmente da satelliti per le telecomunicazioni, una stazione solare fotovoltaica. La stazione, che nella sua versione finale operativa nel 2050 avrà una superficie utile di alcuni chilometri quadrati, convertirà la luce del sole in energia elettrica con una potenza continua dell’ordine dei gigawatt e la trasmetterà a terra attraverso un fascio di micro-onde per essere riconvertita in energia elettrica e immessa nella rete di distribuzione.



Secondo Long Lehao, ogni stazione di questo tipo richiederebbe 100 lanci di LM-9 (che avrà una capacità di 153 tonnellate in orbita bassa e proporzionalmente meno in orbita geostazionaria) e avrà una massa di circa 10.000 tonnellate, richiedendo l’assemblaggio in orbita su una scala mai tentata prima. Per fare esperienza, una prima piccola stazione sarà messa in orbita nel 2022, seguita da un impianto con potenze dell’ordine del megawatt entro la fine di questo decennio.


I cinesi avevano già nel 2019 rivelato di ritenere la generazione di energia da fotovoltaica nello spazio e la trasmissione a terra come un ambito strategico di sviluppo e avevano avviato la costruzione di una stazione di ricezione a microonde a terra. Ora, di raccolta di energia solare nello spazio si parla da decenni. I vantaggi sono evidenti: nessuna attenuazione atmosferica, nessun ciclo notte-giorno, nessun problema metereologico. L’energia solare incidente in orbita terrestre è del 144% superiore a quella disponibile sulla terra nelle migliori condizioni possibili, e lo è sempre.


Ci sono naturalmente dei problemi. Uno è il costo del lancio, un altro il degrado degli attuali pannelli solari in un ambiente come lo spazio, un terzo la difficoltà a tenere il fascio di micro-onde centrato sull’antenna ricevente. Un fascio a 2,5Ghz aventi in partenza un diametro di un chilometro (che corrisponde all’antenna trasmittente) dall’orbita geostazionaria alla Terra si allarga sino a 10 chilometri, che dovrebbe essere il diametro di quella ricevente. Non è necessario che questa sia un disco di un solo pezzo, si può costruire installando molte antenne di minori dimensioni.


Tra il 1978 e i primi anni ’80, gli Stati Uniti hanno studiato a fondo la raccolta di energia solare nello spazio, sull’onda dello shock petrolifero, con il progetto SPS, Solar Power Satellites, condotto dalla NASA con la collaborazione di diverse altre agenzie governative. Le opere di divulgazione e le riviste scientifiche dell’epoca sono piene di articoli e capitoli sul tema. Il progetto SPS produsse una serie di report tecnici estremamente dettagliati e visionari (basta dare un’occhiata al capitolo vettori per rendersi conto della scala a cui stavano pensando gli esperti americani, razzi molte volte più grandi del pur notevole LM-9). Tutto si fermò con l’allentarsi della crisi energetica e di fronte al lavoro teorico e pratico da affrontare prima di poter lanciare lo sviluppo su larga scala di stazioni fotovoltaiche orbitanti. Un aspetto interessante dello studio americano, poi confermato dalle ricerche a scala più piccola che sono proseguite nei decenni successivi negli USA, in Giappone e in altri Paesi, è che dopo un certi numero di satelliti diventa conveniente utilizzare risorse che si trovano già nello spazio, sulla Luna e negli asteroidi, per produrre le stazioni. Da questa considerazione tra l’altro si sviluppò il concetto di habitat orbitali, comunemente legati al nome del grande visionario USA Gerard K. O’Neill, ma questa è un’altra storia.


I cinesi sono consapevoli dei problemi, ma sembra che abbiano intenzione di andare avanti. Un indizio è significativo. La configurazione del vettore LM-9 è stata nell’ultimo anno cambiata e ora ha un aspetto molto simile a Saturno V degli anni '60, ma con il primo stadio propulso sedici motori operanti in parallelo attorno al bordo. Una configurazione del genere è più costosa da costruire, ma è adatta a essere recuperata e riutilizzata (stile SpaceX), una caratteristica necessaria per abbassare i costi di lancio. Proprio questa nuova configurazione ha ricevuto il via allo sviluppo da parte del Governo cinese. Un caso?


Dall’energia ai trasporti, militari ma non solo. Nell’ultimo budget del Pentagono l’Air Force Research Laboratory chiede 47,9 milioni di dollari per investigare la scienza e la tecnologia necessarie e integrare le esigenze logistiche delle forze armate americane con l’offerta di lanciatori riutilizzabili commerciali nella fascia delle 30-100 tonnellate di carico utile. Gli use case, come si dice oggi, sono due. Una rete di trasporto globale tra punti prestabiliti, e la partenza da punti prestabiliti e l’arrivo su terreno non preparato se non sommariamente (per esempio la pista di un aeroporto) per missioni militari o di soccorso. Nel secondo caso la sfida più grande è il ritorno del veicolo alla base. Una possibilità è conservare parte del carburante per fare un “saltello” sino a un'area attrezzata e accessibile, per esempio un porto.



L’idea di utilizzare razzi per trasportare, con una traiettoria suborbitale, cargo e anche personale in ogni parte del globo in meno di un’ora non è nuova. L’Air Force ne parla dalla fine degli anni 50 e tra il 1964 e il 1968 il concetto è stato al centro dei progetti concettuali avanzati della Douglas Corporation, ora parte di Boeing, del grande Philip Bono, un ingegnere aerospaziale di origine italiana che è stato uno dei pionieri nei vettori recuperabili e riutilizzabili. Quando ancora il Saturn V doveva compiere il primo volo, Bono progettava una serie di vettori riutilizzabili e a singolo stadio (Single Stage To Orbit, SSTO, in gergo) che avrebbero fatto scendere il costo di lancio a una frazione di quello possibile allora (e in parte anche oggi).


Il veicolo pensato per il trasporto di cargo e di personale era Ithacus (la leggenda dice che si chiamasse Icarus, ma poi qualcuno notò che quanto a volo Icaro non è proprio un bell'esempio...), sviluppato concettualmente in due versioni, una da 450 tonnellate, Ithacus Senior, capace di trasportare in ogni parte del mondo un intero battaglione di 1200 soldati d’assalto con le dotazioni, e una da 35 tonnellate, Ithacus Junior, da 260 soldati di portata. Ithacus Junior sarebbe stato lanciato due alla volta (un veicolo per i soldati e uno per le dotazioni) da una portaerei nucleare modificata, che avrebbe usato il reattore per scindere l’acqua di mare in idrogeno e ossigeno, combustibile e comburente dei motori. Tra l’altro, i motori per tutti gli SSTO di Bono sarebbero stati delle aerospike (aerospine), a forma di tronco di cono con gli ugelli disposti lungo il bordo, che tra i diversi vantaggi ha anche quello di poter fare da scudo termico per il rientro in atmosfera.


L’idea che sta dietro all’attuale progetto Rocket Cargo recupera molte delle idee sviluppate negli anni ‘60 e approfondite nei decenni seguenti. La spinta è venuta dallo sviluppo dei vettori commerciali recuperabili e riutilizzabili privati, in primis di SpaceX ma anche di altri, che mette a disposizione veicoli già pronti. Non per nulla, la prima notizia che il Pentagono stesse riconsiderando la possibilità risale al 2018, quando Elon Musk avviò la fase realizzativa del grande veicolo Starship e ormai i primi stadi dei suoi Falcon 9 venivano recuperati di routine. Il Pentagono tramite l’AFRL e il comando logistico ha lanciato un programma poliennale, Rocket Experimentation for Global Agile Logistics (REGAL) per sviluppare e dimostrare dei proof of concept su una base temporale di 9-33 mesi secondo la complessità, con un finanziamento massimo di 25 milioni di dollari l’uno. E Musk, dopo avere spiegato per anni che Starship è un progetto che punta alla Luna e Marte, ha iniziato a parlare anche di un servizio di trasporto suborbitale basato su di esso… Un caso?


 

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