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AlgaeFarm: le nuove frontiere della coltivazione delle microalghe

Con un’enormità di anni di evoluzione alle spalle (forse anche tre miliardi) le #microalghe hanno avuto tutto il tempo di sviluppare caratteristiche uniche. Basta pensare che una categoria nelle quali si dividono, quelle unicellulari autotrofe, è in grado di sintetizzare tutte le molecole, le proteine e i grassi necessari alla propria vita partendo da acqua (in cui vivono), luce e anidride carbonica, più altre sostanze in minime quantità. Sono insomma delle “fabbriche” biologiche invisibili a occhio nudo che sono state notate dall’umanità solo quando si raccolgono in colonie.



Inizialmente note solo come fonte di proteine, dall’inizio del secolo scorso gli scienziati hanno iniziato a scoprire un sempre maggior numero di sostanze prodotte alle microalghe e soprattutto il fatto che queste sostanze sono utili per moltissime finalità umane. Da qui a pensare di coltivarle il passo concettuale è stato breve. Molto più lungo quello pratico, che si rivela di giorno in giorno composto da tanti piccoli passi. Le microalghe sono organismi e come dice una massima (riadattata) dell’etologia, un organismo posto in condizione di studio ideali fa quello che gli pare. Per fortuna, nel fare quello che gli pare non ci sono solo fonte di problemi ma anche di opportunità. All’ultimo #AlgaeFarm a Pordenone, 25 e 26 maggio 2022, metà delle conferenze erano sulle ricerche relative alla risoluzione dei problemi e alla scoperte di nuove opportunità, mentre l’altra metà era sugli utilizzi resi possibili. Ci concentreremo sulla prima parte, che di solito è relegata nei convegni strettamente per addetti ai lavori e citeremo solo alcuni esempi.


Un metodo molto diffuso per la coltivazione di microalghe, di solito autotrofe, sono i fotobioreattori, dei contenitori, spesso cilindrici, trasparenti, in polietilene, dove le colonie algali galleggiano illuminate da una sorgente di luce, naturale o artificiale. Come sa chiunque possegga un acquario, ma anche una barca, gli organismi acquatici hanno la tendenza ad aderire alle superfici formando dei biofilm (pellicole biologiche) che hanno una struttura stratificata complessa. In un fotobioreattore, i biofilm costituiscono un nemico insidioso perché attenuano o addirittura bloccano la luce, e senza la luce le microalghe deperiscono e muoiono. Negli acquari e sulle barche si applicano trattamenti chimici e il problema è risolto, ma nei fotobioreattori non si può fare perché gli organismo responsabili sono gli stessi che si vogliono coltivare. Filipa Lopes, della francese CentraleSupelec, ha spiegato i rimedi efficaci che sono stati sviluppati, dalla pulizia meccanica e rivestimenti non tossici che impediscono ai biofilm di aderire alle superfici, ma soprattutto ha spiegato che i biofilm hanno la caratteristica di aumentare la densità di microalghe e renderle più produttive. Si sta provando, anche con sistemi industrializzati, a coltivarle non più in sospensione nell’acqua ma aderenti a superfici (dischi, cilindri rotanti, lastre bifacciali). I risultati sono molto interessanti, forse si è riusciti a trasformare un nemico in un alleato.



Una volta che le microalghe sono bene cresciute, bisogna trovare il modo per estrarre le sostanze utili. Il metodo più usato oggi è farne biomassa, termine elegante per dire ucciderle, esiccarle e utilizzarle in modo indifferenziato. La spirulina in polvere che si trova in erboristeria e nei negozi di alimentari specializzati quello è. Per determinati composti, come l’olio algale (ricco di Omega-3) o certi principi attivi, la biomassa viene sottoposta a trattamenti speciali di estrazione. L’ideale sarebbe fare in modo che le microalghe espellessero le sostanze utili nell’acqua, per poi estrarle, in un processo di “mungitura”. Dopo tutto, per raccogliere le pere non si tagliano i peri, e per avere il latte non si macellano le mucche. Una serie di progetti europei qualche anno fa aveva esplorato questo processo per la produzione di bio-olio microbico microalgale da trasformare in carburanti bio-based, ma avevano dovuto fare i conti con la scalabilità richiesta dalle enormi quantità richieste. Laura Pezzolesi dell’Alma Mater di Bologna si è invece concentrata su una sostanza ad altissimo valore, l’astaxantina che ha un prezzo di mercato, in base alla purezza, compreso tra i 2.500 e il 7.000 dollari al chilogrammo. L’organismo in grado di produrre la maggior quantità di astaxantina per peso è la microalga verde Haematococcus pluvialis quando sottoposta a stress ambientali (luce, acidità dell’acqua, mancanza di nutrienti). In quel caso nell’organismo si formano delle cisti piene di astaxantina che, essendo rossa, provoca anche il cambiamento del colore dell’alga. La sostanza che si è rivelata la migliore per estrarre l’astaxantina dalle alghe senza ucciderle è l’olio di mandorla. Anche la stabilità della molecola nell’olio è risultata altissima, con il 97 e il 90% rimasta rispettivamente dopo 31 e 79 giorni. La percentuale di microalghe sopravvissute e funzionali varia tra il 66 e l’83%, in dipendenza dalla concentrazione dell’astaxantina e dall’età/dimensione delle cisti che la contengono. Ciò significa che dopo ogni estrazione rimangono produttive tra i i 2/3 e il 4/5 delle microalghe consentendo, con consecutivi rabbocchi, un processo di produzione in continuo, impossibile con gli altri metodi di estrazione. Una rivoluzione nella coltivazione mirata di microalghe.

Una profonda conoscenza della fisiologia delle alghe, anche in condizioni particolari, è essenziale per migliorare la produzione di biomassa ed orientare la produzione verso specifiche biomolecole. Questo può avvenire sia in modo diretto, sia riproducendo i processi metabolici che in una specie portano alla produzione di una molecola in un’altra specie. Esistono diversi modi per fare questo.



Nico Betterle, dell’Università di Verona, sta per esempio lavorando su un nuovo ceppo di un’alga oceanica, Synechococcus sp. PCC 11901, per metterla in grado di produrre astaxantina. Synechococcus sp. PCC 11901 possiede caratteristiche che la rendono adatta ad applicazioni su scala industriale: si riproduce rapidamente, accumula molta biomassa per litro, cresce anche in ambienti altamente salini e alcalini (pH 10) e temperature sino a 43 centigradi. Inoltre produce naturalmente i precursori dell’astaxantina. Manca invece degli enzimi per trasformare il beta Carotene in zeaxantina e poi in astaxantina. Attraverso le tecniche di ricombinazione genetica, nel genoma del ceppo “selvatico” si introducono sequenze che esprimono i due enzimi necessari. Il Synechococcus sp. PCC 11901 così trasformato si mette a produrre astaxantina in quantità.


Un’altra tecnica utilizzata è quella CRISPR-CAS, le “forbici molecolari” che permettono di sezionare sequenze genetiche, per esempio eliminando le parti che inibiscono l’espressione di determinati geni. All’Università di Wageningen il gruppo di cui fa parte Sarah D’Adamo, presente ad AlgaeFarm, sta lavorando sulla produzione di lipidi da parte di Nannochloropsis Oceanica, un’alga bruna nota per produrre olio in quantità. Gli obiettivi sono diversi: aumentare la percentuale di triacilglicerolo sul totale dei lipidi, aumentare la produttività a seguito di crescita di nutrienti (azoto) e luce, cambiare totalmente il profilo di produzione di lipidi a favore di acidi grassi a catena media, che sono ideali per la sintesi di idrocarburi per carburanti (inserendo una sequenza genetica di un’altra alga). La strada è ancora lunga, soprattutto in termini di industrializzazione, ma le tecniche funzionano e permettono anche di capire meglio il metabolismo algale.


La meta finale, almeno per ora, della ricerca sulle microalghe (e non solo) è la creazione di organismi sintetici, con tre approcci partendo da catene genetiche (episomi) note per portare alla sintesi di determinate sostanze in altri organismi, anche complessi; assemblando blocchi di DNA standard per costruire organismi semplificati che essenzialmente producono solo una o più sostanze di interesse, e infine ottimizzando un organismo in natura eliminando tutte le caratteristiche che non concorrono alla sintesi della sostanza di interesse. Lo ha spiegato Michele Fabris, ricercatore alla University of Southern Denmark – Department of Green Technology. Per fare un esempio e solo della prima tecnica, in un filone di ricerca seguito da Fabris, una catena genetica complessa, un episoma, che in alcune piante superiori produce un complesso noto come Geranyl-diphosphate (GPP) che sintetizza i monoterpenoidi, potenti sostanze che vengono usate in farmaceutica, cosmetica e nell’alimentare, è stata inserito tramite un vettore batterico in una diatomea, un’alga caratterizzata da un guscio silicico. Non nel cromosoma, quindi tecnicamente il suo DNA non è stato modificato. La diatomea modificata, come una macchina biologica, ha iniziato a produrre il geraniolo, un monoterpenoide che non viene prodotto da nessun microorganismo in natura. In pratica, le successive ricerche lo hanno confermato, usando gli episomi è possibile costruire dei percorsi metabolici all’interno di alghe senza modificare il DNA cromosomico. Sono ricerche di frontiera. Siamo orgogliosi che AlgaeFarm abbia potuto ospitarne un’illustrazione originale.



 

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