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Scrittore copiaincolla? AI AI AI!

Qualche impressione non strutturata e vagamente irriverente sulla questione del momento tra i digerati, nella neolingua di internet gli artefici della nuova rivoluzione elettronica.


Da un paio di mesi i giornali sono pieni di articoli sulla fatale sostituzione di un numero sempre crescente di attività umane “intellettuali” (prese come sinonimo di “scrittura”) da parte delle applicazioni generative di intelligenza artificiale. Si parla essenzialmente di ChatGPT, sviluppato da OpenAI, adottato con modifiche da Microsoft e ora giunto alla quarta iterazione. Un numero di articoli assai minore, ma con firme spesso prestigiose, si dilunga invece sull’impossibilità stessa di una intelligenza artificiale intesa come rifacimento della mente umana. Partiamo da questa seconda affermazione. Senza considerare che le intimazioni di impossibilità hanno una lunga storia di smentite, anche se l’affermazione fosse vera, sarebbe irrilevante: la ricerca e i prodotti contemporanei sull’intelligenza artificiale non puntano a rifare la mente, ma solo a rifare alcune funzioni della stessa. È sempre valida l’analogia della macchina utensile: un telaio meccanico non rifà l’uomo che tesse, produce semplicemente stoffe ad una velocità molto superiore.



Tornando all’allarme sull’obsolescenza umana, una recente ricerca riportata sui giornali italiani parla del 90% delle professioni che hanno a che fare con la scrittura come “a rischio”. Poi si legge meglio e si scopre che la percentuale si riferisce alle professioni che sono toccate dalle capacità delle AI di quel tipo, con percentuali delle singole attività che al massimo arrivano al 19%. Curioso poi che tra le attività elencate dai giornalisti appaiano quelle legate alla comunicazione, ma non al giornalismo. Come invece fa notare un collega, forse ottimisticamente, (https://t.ly/MItk) a rischio, nel futuro prevedibile, sono le attività “intellettuali” di compilazione, ossia quelle che si basano sulla raccolta di informazioni già scritte.


Queste comprendono certamente una gran parte di quelle giornalistiche di tipo “riassuntivo”, basate sull’utilizzo di fonti strutturate: dai documenti ufficiali, alle agenzie di news, ai comunicati stampa preparati dalle media relations di aziende ed enti. In effetti, ben prima dell’intelligenza artificiale, in campo giornalistico si è fatto ampio uso ed abuso delle intelligenze naturali dei PR facenco copia e incolla dei comunicati stampa. Inoltre, già da anni i commenti di borsa, le coperture delle trimestrali, semestrali e dei bilanci sono effettuati da programmi di scrittura automatica meno sofisticati di ChatGPT ma altrettanto efficaci.


Un’evidente limite delle AI generative in ambito giornalistico è il fatto che l’elaborazione dei testi si fonda su basi di conoscenza che richiedono molto tempo per essere indicizzate, per cui hanno un limite di aggiornamento. Sarebbe però sbagliato pensare che questo limite perduri. È possibile pensare ad un aggiornamento continuo della base di conoscenza, anche se le risorse di calcolo richieste rischiano di crescere in modo asintotico, specie se ai testi si aggiungono fonti come i media video e audio, da cui l’informazione va preliminarmente estratta e trasformata in testo.



Altro grido d’allarme arriva, specie dai Paesi anglosassoni, dalla crescente capacità delle AI generative di superare i test di ammissione a università, professioni, eccetera. Sulla stessa linea, in Italia nessuno chiede ai laureandi triennali di discutere le proprie tesine ed elaborati. Ebbene, o li aboliamo, oppure sarà meglio che qualcuno si rimetta a lavorare. Se non altro, misurerà lo sforzo e il successo del candidato di imparare e capire quel che ChatGPT avrà scritto.


Termino con il codice informatico. Uno spiritoso di talento, Matt Welsh, ex professore di computer science ad Harvard, la mette giù del tipo: “Il codice tipico da sempre fa comunque schifo, quindi farlo fare ai robot sarebbe un progresso”. L’argomentazione è naturalmente molto più sofisticata e la trovate qui: https://thenewstack.io/coding-sucks-anyway-matt-welsh-on-the-end-of-programming/ Welsh dà tre anni di tempo per la fine della programmazione (lui dice la computer science, che è un filo esagerato). Facciamo il doppio.


 

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