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La fotosintesi artificiale fa crescere le piante al buio

Nessuno è perfetto. Neanche gli organismi e le loro parti. Prendiamo il caso dell’occhio umano, spesso descritto da chi non ha una preparazione scientifica come un esempio di perfezione della Natura (con la N maiuscola). Potremmo sorvolare su difetti funzionali e spesso congeniti come la miopia, l’ipermetropia, l’astigmatismo, il daltonismo nelle sue varie forme, da ascriversi a difetti di fabbricazione (di un’azienda con un controllo qualità molto scarso). Però l’occhio è anche carente dal punto di vista del progetto. Il caso più eclatante è che la parte più importante, ossia la retina, che contiene i recettori della luce, è montata al contrario. Verso la luce ci sono i nervi e i vasi sanguigni, per cui i fotoni devo attraversare questo strato prima di raggiungere lo strato di pigmenti che li percepisce. Non solo: per come è “progettata”, la retina deve avere per forza un punto privo di recettori, che è dove le terminazioni nervose si uniscono nel nervo ottico. Questo punto, il disco ottico, è cieco. Non ce ne accorgiamo perché il nostro cervello interpola, ma con certi accorgimenti si riesce a superare le capacità dei nostri algoritmi di correzione e lo si vede.

La stiamo prendendo alla larga per mettere in chiaro che quello che diremo nel resto dell’articolo non deve essere considerato come esempio di arroganza umana nei confronti della natura, ma la semplice constatazione che il meccanismo che ha portato all’occhio umano produce risultati abbastanza buoni ma non perfetti. E comunque gli occhi dei cefalopodi, come il polpo, essere sorprendente in tanti aspetti, sono uguali ai nostri come meccanismo di ricezione della luce (una lente e uno strato di fotorecettori), ma sono progettati “giusti”, come farebbe un ingegnere neolaureato, con i recettori verso la luce e l’alimentazione (vasi sanguigni) e le connessioni (assoni) dietro. Quindi avere un occhio più “logico” sarebbe stato decisamente possibile. Sul come questo non sia avvenuto (il perché non ha senso chiederselo) le ipotesi sono tante, ma nessuna ancora nemmeno lontanamente definitiva.



Sempre parlando di luce, una delle più grandi invenzioni della natura (a questo punto con la n minuscola) è la fotosintesi, il meccanismo chimico-fisico che permette ad alcuni organismi di sintetizzare a partire da alcune sostanze universalmente disponibili (acqua, CO2 e poche altre) un enorme numero di molecole complesse utilizzando la luce come fonte di energia. Cosa la fotosintesi sia riuscita a fare o a provocare nel mondo è talmente gigantesco che non provo nemmeno a descriverlo. Basti dire che il mondo dove noi viviamo è stato ed è plasmato dalla fotosintesi. Non lo riconosceremmo e tanto meno saremmo in gradi di viverci se fosse ancora come era prima.

A questo punto vi starete aspettando una lista della défaillance della fotosintesi. Ne basta solo una: bassissima efficienza nell’utilizzo dell’energia. Con tutta la sua immensa potenza, il meccanismo di sintesi spreca dal 94 al 99% dell’energia immessa. Le piante multicellulari non superano il 4%, ma molte delle specie utili per l’umanità hanno un tasso di spreco più alto. In cosa si traduce questa bassa efficienza? Solo una percentuale molto bassa dell’energia immessa sintetizza biomassa, quindi le piante hanno bisogno di luce, molta luce, per crescere, non tanto in un momento puntuale ma su tutto l’arco del loro ciclo vegetativo. Tutti i miglioramenti ottenuti nel tempo sulla produttività di una pianta si scontrano alla fine con questa barriera: più di tanto il motore non va.

Anche i nuovi metodi di coltivazione come l’idroponica e soprattutto le vertical farm fanno i conti con questo limite: si risparmia enormemente in suolo occupato, acqua, fertilizzanti, si evita di perdere produzione a causa di infestanti, parassiti e condizioni metereologiche, ma si deve fornire luce in abbondanza. Se poi si usa luce artificiale solo alle frequenze utilizzabili dalla pianta (il 51,3 dello spettro solare è fuori dal campo attivo della fotosintesi), bisogna fornire energia, e il consumo di energia per l’illuminazione è il singolo punto di costo più importate nell’economia di una vertical farm.

Ma c’è un ma. La potenza della fotosintesi ha sempre affascinato gli umani che, da quando hanno iniziato a capirne il funzionamento, hanno prima sognato e poi lavorato per ricrearla in modo artificiale. Uno dei primi, se non il primo, a scrivere di fotosintesi artificiale in un articolo scientifico fu un nostro connazionale di origine armena, Giacomo Ciamician, suddito asburgico e dal 1887 docente prima a Padova e poi a Bologna. La possibilità di utilizzare una forma artificiale di fotosintesi per sintetizzare combustibili alternativi al carbone costituì l’argomento del suo discorso all’VIII International Congress of Applied Chemistry, tenutosi a New York nel 1912.



A oltre cento anni di distanza i ricercatori hanno fatto molti passi avanti, ma dal punto di vista della produzione di biomassa ci sono ancora diverse difficoltà. Una via d’uscita è rappresentata dal fatto che la fotosintesi in senso stretto è solo il primo passo, quello della conversione di energia luminosa in sostanze chimiche a loro volta portatrici di energia, da cui la pianta produce biomassa riproducendo se stessa. Partendo da qui, un team di ricerca congiunto delle università della California-Riverside e del Delaware ha avuto l’idea di mettere a punto un processo elettrochimico che, partendo dalla luce solare convertita in elettricità da un pannello fotovoltaico e tramite l’alimentazione di un elettrolizzatore, in presenza di un catalizzatore produce una soluzione di acetato (il principale componente dell’aceto) a partire da acqua, anidride carbonica e un sale di potassio o di sodio. Usando un processo a due stadi, che converte prima la CO2 in monossido di carbonio e utilizza poi quest’ultima nel secondo stadio, i ricercatori hanno ottenuto un’efficienza molto elevata nell’uso del carbonio immesso. Ma il bello viene ora.

Gli organismi unicellulari, come le alghe e i lieviti, e quelli pluricellulari (nove tipi di piante vascolari, tra cui la lattuga, il pomodoro e il riso) sono cresciuti sul substrato di acetato senza problemi, e NELLA TOTALE OSCURITÀ. Dalle analisi fatte, non c’è differenza tra il contenuto nutritivo delle piante cresciute alla luce e quelle cresciute nella totale oscurità. In pratica, l’acetato viene assunto e integrato dalle piante e utilizzato come vettore energetico chimico per far funzionare tutto il resto del loro metabolismo.

Il risultato è abbastanza epocale. Se venisse applicato alle colture protette, le vertical farm potrebbero essere non solo più “dense” di quelle attuali, ma non avere necessità di luce, con un’evidente riduzione dei consumi energetici. Tra l’altro, il conto finale dell’efficienza del processo messo a punto dai ricercatori è risultato quattro volte migliore della fotosintesi naturale, nonostante le perdite di efficienza della conversione fotovoltaica prima e di quella elettrocatalitica poi siano importanti. Inoltre, l’acetato è facilmente trasportabile, per cui si possono immaginare vertical farm “buie” sia in luoghi con grande abbondanza di luce solare, sia nei centri urbani. Ma ci si può spingere più in là. Essendo la luce superflua, si possono costruire farm subacquee a basso consumo di energia. Le applicazioni spaziali sono evidenti, ma le proprietà dell’acetato potrebbero essere sfruttate come integratore per migliorare la produttività anche in pieno campo e addirittura aprire nuove terre alla coltivazione. Il mutamento climatico sta facendo salire verso nord la linea delle foreste e delle praterie, ma le possibilità di messa a coltura di questi immensi territori sono limitate dalla scarsità di luce solare nel corso del ciclo vegetativo. Un integratore di acetato potrebbe consentire alle piante di non soffrirne.

Solo come appunto: per utilizzare l’acetato in modo talmente efficiente da fare a meno totalmente della luce, i vegetali devono possedere dei canali metabolici oggi sottoutilizzati o non utilizzati del tutto. Che ci fanno lì, in una gamma di specie che va dalle alghe autotrofe al riso? Come si sono evoluti? E rispondendo a quali pressioni adattative? Un altro esempio della potenza della fotosintesi: cercando di migliorarla si scoprono altri misteri da indagare. la natura, direte voi. Certo, ma è anche la scienza. Umana.



 

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