In Studio riceviamo mal contate 150 newsletter a settimana. Cerchiamo di guardarle tutte, scorrere quelle che ci sembrano più interessanti e leggerne una percentuale più bassa. Gli argomenti sono tutti quelli in cui ci vedete attivi nei nostri eventi e progetti, e anche qualcuno di cui non avete ancora visto nulla ma a cui stiamo lavorando. Alla fine, è una parte necessaria del nostro lavoro per essere sempre alla velocità con cui va il nostro mondo.
Proprio leggendo una newsletter, una decina di giorni fa, sono rimasto colpito da una serie di notizie collegate. Argomento generale: derivati del latte, i cosiddetti diary. Ma in queste notizie, tutte uscite nell’arco di pochi giorni, non si parla di latte, formaggi e gelati, ma di lieviti e funghi geneticamente modificati, di fermentazione di precisione, di eliminare il latte di mucca, anzi le mucche, per salvare il pianeta, per servire il mercato dei vegani, eccetera. Non si tratta quindi del simil-latte vegetale fatto con le mandorle o con l’avena o con le altre decine di legumi, cereali, noci, bacche in circolazione.
Seguiamo la newsletter. Si inizia da Israele. Remilk, una startup fondata nel 2019 che ha raccolto da una trentina di investitori, tra cui un paio di colossi del diary, 120 milioni di euro, aprirà in Danimarca il più grande impianto di fermentazione di precisione al mondo. 70.000 metri quadri che a regime produrranno proteine del latte equivalente alla produzione di 50.000 mucche ogni anno. Il processo di Remilk, che non è unico (solo in Israele c’è almeno un’altra azienda, Imagindairy, che cerca di fare lo stesso), si basa sull’inserimento in un tipo di lievito (quale non è noto) dei segmenti di DNA che nei bovini regolano la produzione delle proteine del latte, principalmente delle quattro forme che assume la caseina. I lieviti vengono inseriti nei fermentatori dove crescono su un substrato di materiale cellulosico preparato appositamente (eliminando la lignina, cosa che nelle mucche fa l’apparato digerente molto complesso) e producono proteine del latte. Alle proteine vengono poi aggiunti vitamine, minerali (il calcio soprattutto), grassi vegetali e zuccheri. Il prodotto finale è un “latte” in polvere che può essere usato per la produzione di formaggi, yogurt, gelati ... La descrizione pubblicamente disponibile del processo non è ovviamente quella completa. Manca la spiegazione di come avviene tutta la parte di assemblaggio delle caseine nella micella caseinica, che è fondamentale per la produzione dei formaggi. Per esempio, una micella grande consente solo la produzione di formaggi freschi.
E infatti, andiamo a Barcellona, da un’altra start-up, Real Deal Milk, che sta lavorando a un processo basato sempre su lieviti transgenici, forse diversi da quelli di Remilk. La startup spagnola è stata fondata l’anno scorso e quindi è riuscita solo a produrre su piccola scala le quattro caseine e le due proteine base del siero. Il procedimento di assemblaggio della micella produce solo micelle grandi, e infatti gli spagnoli puntano su analoghi della mozzarella e della ricotta. Le ambizioni sono senza limiti: entro il 2050 nessun animale nella produzione del latte e dei suoi derivati. Chissà cosa ne pensano tra Parma e Reggio o a Caserta.
Ancora più indietro è Firmify, una startup austriaca appena nata. L’idea è interessante: sviluppare una piattaforma digitale in grado di definire e controllare i parametri di produzione di proteine del latte in fermentatori di precisione di piccole dimensioni (2000 litri) da installare presso i caseifici. Una produzione distribuita e a quanto pare personalizzabile per ogni tipo di formaggio che si vuole produrre, fattore peraltro stranoto. Non solo il parmigiano-reggiano ha infatti un disciplinare rigido sulla materia prima latte, ma anche altri formaggi nascono da latti con composizioni uniche o quasi. Gli austriaci prendono sul serio i propri obiettivi: non hanno, almeno pubblicamente, deciso quale tecnologia utilizzare, ma stanno assumendo ricercatori per stabilire da quali specifiche caratteristiche del latte derivano le qualità dei vari formaggi. Chapeau.
E i funghi? Quelli li usano in America, a Berkeley, alla Perfect Day (sì, Lou Reed c’entra perchè sembra che le mucche facciano più latte ascoltando la canzone), dove si è trasferita l’azienda nata nel 2014 come Muufri in Irlanda, a Cork. Uno dei fondatori è di origine indiana, per cui l’azienda ha anche una sede a Bangalore. Il processo di produzione delle proteine del latte si basa su un fungo transgenico, ma stanno lavorando a diversi organismi vegetali che loro chiamano microflora. Le proteine di Perfect Day sono alla base del primo prodotto di questo tipo commercializzato, dopo autorizzazione FDA, al mondo: un gelato (geniale).
Dopo questa piccola carrellata, appena il tempo di notare che la spinta verso le proteine sintetiche del latte (nessuna caratterizzazione negativa, anche le mucche sintetizzano la caseina e compagnia) ha dietro una spinta finanziaria molto forte. Non tanto e non solo da parte del venture capital, indipendente o affiliato a grandi gruppi industriali come con Realmilk, quanto dall’industria finanziaria in sé, quella che comanda le danze di quelle cose che si chiamano ESG, le regole Environmental, Social and Governance che dovrebbero “guidare” la concessione di finanziamenti favorendo le imprese che le seguono. Nella stessa newsletter che ha dato origine a questo articolo, campeggiava l’intemerata della FAIRR Initiative, un gruppo di investitori istituzionali che si occupa dei “rischi” per il pianeta provenienti dalla produzione alimentare. FAIRR sul suo sito si presenta con un numero e una sigla: $ 51,3 trillion AUM, che sta per Asset Under Management. Gente potente, quindi. L’intemerata si rivolge, a chi altri, all’industria globale del diary affermando che, con la pubblicazione del quinto rapporto ONU-IPCC sulle conseguenze settoriali del cambiamento climatico, la produzione di proteine animali, partendo, beh, da animali, ha raggiunto il suo “momento Apollo 13”. Ossia deve ripensarsi rapidamente per evitare il disastro in quanto è un inquinatore di prim’ordine per colpa dei bovini che emettono metano, la deforestazione, eccetera. Insomma, nulla di nuovo. Ignorate le tecnologie di derivazione algale, che permettono di ridurre dell’80% le emissioni gassose dei bovini, fatte affermazioni discutibili come la sparizione dei pascoli a causa del riscaldamento. Il rimedio “ consigliato” infatti è: convertirsi abbandonando le proteine animali di origine animale.
Mi ha colpito improvvisamente un fatto. Questa del diary è la dimostrazione plastica che quando tutti, a partire dall’Unione Europea, parlano di Farm-to-Fork per caratterizzare il nuovo sistema della produzione alimentare, più sostenibile, decarbonizzato, dechimicizzato, decrudelizzato, dellevamentizzato e centrato sui vegetali, in realtà mistificano. Cosa c’è di “farm” in un formaggio prodotto con proteine del latte secrete da funghi, lieviti e forse batteri che lavorano su cellulosa, con l’aggiunta di vitamine di sintesi, minerali vari, grassi vegetali (idrogenati per aumentare la durata del prodotto)? Parliamo invece di Lab-to-fork, ossia solo la biotecnologia può far raggiungere gli obiettivi dichiarati della sostenibilità. Ma questa è solo la prima fase. E viva i ricercatori e le startup che ci lavorano perchè i loro risultati sono strabilianti (come quelli degli scienziati nucleari, dei chimici che già nel 1910 lavoravano a un processo industriale per trasformare la lignina in zuccheri, degli aerospaziali, eccetera). La seconda fase viene quando dal laboratorio si deve raggiungere la fork, e questo lo può fare solo l’industria alimentare, che giustamente non lo fa gratis ma per aumentare la competitività e la redditività del proprio brand. E allora parliamo di brand-to-fork, e smettiamola. Con queste premesse si va verso la rapida sparizione dei prodotti delle farm, grandi e piccole, in quanto tali (sì, anche le bio) e verso alimenti sempre più ingegnerizzati e che non sono quello che sembrano (un altro mio pallino, scuserete). Entro il 2050, come vorrebbero gli startupper spagnoli? Basta dirlo e non nascondersi dietro ad una spiga di grano biologico. Con tutto questo, mi piacerebbe assaggiare i gelati di Perfect Day. Saranno sempre meglio di quelli di soia.
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