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Resi da e-commerce. Un'IA decide se potete tenervi la merce E i soldi

La logistica inversa, alimentata da prodotti scaduti, con difetti, ordinati per sbaglio o semplicemente non adatti, è uno dei settori più difficili della logistica. Finché a dominare nel commercio era la modalità basata su negozi fisici, il flusso era abbastanza lineare, perché era lo stesso negozio a fare da concentratore. Poi è arrivato l’e-commerce e i problemi sono aumentati a dismisura. Addirittura alcuni retailer utilizzano la gestione dei resi come strumento di marketing, per esempio nel fashion, dove negli ultimi tempi si è andati ben oltre il minimo indispensabile necessario per consentire la prova di scarpe e vestiti (ora siamo almeno a 60 giorni, che permettono una prova molto rilassata...).

I resi sono belli (per i clienti) ma costano ai retailer, che hanno iniziato a cercare dei modi per ridurre sia i costi che i resi, dall’utilizzo dei punti di ritiro e consegna ai locker, alle convenzioni con i corrieri. In certi casi, per esempio con gli ingombranti, il costo di reso può essere comunque molto alto per il retailer, ma la legge parla chiaro: è un diritto entro un certo periodo di tempo indipendentemente dal motivo per cui si effettua. Anche all’altro capo della scala dei prezzi la gestione dei resi è antieconomica, ma qui è una questione di margini, soprattutto se il cliente è abbonato ai programmi che prevedono le consegne gratuite con un costo a forfait periodico. L'elaborazione dei resi online può costare al retailer tra gli 8 e i 16 euro, trasporto escluso, a seconda dell'articolo. Il trasporto di un reso costa da solo tra il 15 e il 20% del prezzo dell’articolo.


La pandemia ha complicato le cose ancora di più. Non ci sono dati affidabili per l’Europa e l’Italia, ma negli Stati Uniti, secondo le stime di Narvar, una società specializzata nell’elaborazione delle pratiche di reso per i rivenditori, il numero di pacchetti di e-commerce restituiti nel 2020 è aumentato del 70% dal 2019. Più della metà dell'aumento è dovuto alle maggiori vendite di e-commerce, mentre più di un quarto è stato il risultato del rifiuto degli acquirenti di restituire gli ordini web ai negozi fisici. Una percentuale minore della crescita, comunque collegata alla pandemia, è dovuta al fatto che le persone non individuavano la taglia giusta, o perché il loro peso era cambiato durante la pandemia o perché non avevano familiarità con le taglie del marchio acquistato online. Già di per sé, la percentuale di reso degli acquisti online è in media il triplo di quelli effettuati nei negozi fisici.


Tradotto in numeri, per il solo periodo delle feste di fine anno, negli Stati Uniti si stima che i resi siano cresciuti del 73% rispetto alla media degli ultimi cinque anni, per un totale di valore che supera i 70 miliardi di dollari per tutti i settori del commercio al dettaglio. Sul fronte dell’e-commerce, dove i costi di reso sono più alti, c’è stato un aumento in volume ma non in percentuale sul totale delle consegne. Negli Stati Uniti, ma anche nel resto del mondo, la crescita dell’e-commerce si è concentrata più sui beni di consumo rispetto a quelli tradizionalmente comprati online. Sono cresciuti molto di più biscotti e pannolini rispetto a libri ed elettronica.

Nonostante ciò, l’aumento del volume dei resi è già di per sé un problema. Per questo alcuni retailer stanno iniziando a consentire ai clienti di tenersi gli articoli pur restituendo i soldi spesi, o almeno parte degli stessi (le specifiche sono indicate nelle condizioni generali e in quelle particolari per singolo articolo). I pionieri sono come sempre americani. Il colosso Walmart utilizza un algoritmo che tiene conto della cronologia degli acquisti dei clienti, dal valore dei prodotti e dal costo di elaborazione dei resi, e lo applica solo agli articoli che ha già deciso che non intende rivendere. Il corrispondente low-cost di Walmart, Target, che costituisce tra l’altro una storia di successo nella riconversione “al volo” da tutto fisico a integrazione online-fisico nel commercio al dettaglio in pandemia, segue un approccio analogo e aggiunge il fatto che invita i clienti a donare il prodotto a una serie di “charities”.


Come sempre, Amazon lo fa ma non spiega. Ci sono indicazioni sull’utilizzo di un’intelligenza artificiale che tiene conto di un gran numero di fattori, tra cui l’anzianità dell’account che chiede il reso. “Dobbiamo” questa informazione a chi sta cercando di approfittare della tendenza, quelli che vengono definiti hacker ma in realtà sono dei semplici truffatori. Secondo una ricerca della società specializzata in cybersecurity Sixgill, nelle chat del dark web è ormai dato per assodato che l’IA di Amazon sia infallibile nel rilevare i tentativi di frode se l’account è di creazione recente. Questo peraltro ha innescato un una specie di mercato per gli account vecchi e non utilizzati da tempo, sia acquisiti in modo legittimo che attraverso operazioni illecite. Se infatti un account è usato spesso, le modifiche che il truffatore deve effettuare vengono subito rilevate dal proprietario. Un caso tipico è la creazione di un nuovo indirizzo di spedizione e di un nuovo mezzo di pagamento, senza toccare quello primario.


Quanto ai metodi per reclamare il reso e tenersi il prodotto, variano da Paese a Paese per via delle diverse legislazioni. Negli Stati Uniti un caso tipico è denunciare il mancato arrivo o la difettosità della merce, per poi affermare di rifiutarsi di firmare la ricevuta dei pacchi per paura della Covid. Ci si potrebbe chiedere che tipo di guadagni i truffatori si aspettano da una simile attività. Ebbene, secondo Sixgill, la maggior parte lo fa per divertimento. Altra aggiunta alla lista dei danni della Covid-19.


 

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